venerdì 29 agosto 2014

Under the Skin - La recensione

"Crossposto" la mia recensione del film dalle pagine di Positif Unsitodicinema 

A quasi un anno dalla sua partecipazione al Festival di Venezia, Under the Skin si appresta a uscire nelle sale del nostro paese. All’origine dell’opera terza di Jonathan Glazer (Sexy Beast, Birth) c’è l’omonimo romanzo fantascientifico Sotto la pelle di Michel Faber. Dopo un lavoro sull’adattamento durato più di dieci anni, il regista e il co-sceneggiatore Walter Campbell si sono via via allontanati dalla fonte letteraria, specie dai suoi riferimenti allegorici alla politica, alle multinazionali, all’ambiente, e hanno invece cercato di esaltare la figura dell’aliena protagonista, rivelatasi il vero fuoco prospettico dell’intera pellicola.

L’intreccio di Under the Skin è scarno e arido come gli scenari scozzesi che gli fanno da sfondo. Una razza aliena ha invaso segretamente la terra, mandando una sua cacciatrice a fare incetta di carne umana maschile. Nascosta dentro il corpo di una donna procace (Scarlett Johansson) la spietata creatura abborda uomini soli e li attira dentro un antro buio, dove vengono letteralmente inghiottiti dal pavimento, per essere in seguito ‘prosciugati’ e privati della pelle.

Le premesse fantascientifiche non sono nuove ma anzi si riferiscono esplicitamente all’epoca d’oro del genere, quegli anni della Guerra Fredda in cui sono stati partoriti alcuni tra i più spaventosi incubi letterari e cinematografici: da Invasion of the Body Snatchers fino a They Live, passando per la serie televisiva V. Tutte declinazioni del tipico terrore diabolico del non appartenersi e della paura dell’altro, dell’alieno. Qui però si ferma ogni collegamento con la science fiction più classica: il film marcia in direzione contraria al sensazionalismo di genere e fa di tutto per confezionare sequenze di raggelante realismo e quotidiana normalità. Chi conosce gli altri lungometraggi del regista, i suoi video clip (memorabili quelli diretti per i Radiohead come Street Spirit) e i suoi spot pubblicitari, vi ritroverà la stessa vocazione sperimentale, che in questo caso emerge soprattutto nella moltiplicazione dei punti di vista audiovisivi e nell’uso dei practical effects al posto dei soliti e abusati trucchi digitali.

Si è fatto un gran parlare dei metodi peculiari adottati per girare il film. La Johansson sola dentro il suo camioncino, circondata da decine di videocamere invisibili, mentre tenta di adescare realmente, come in una candid camera, ignari passanti. Chiedersi se ciò corrisponda o no al vero è tutto sommato futile, visto che non ne risulterebbe comunque intaccata la percezione di estremo (neo)realismo che il film è capace di trasmettere. Più utile è soffermarsi ad apprezzare le performance di chi, come l’attrice protagonista, riesce ad apparire assolutamente verosimile in un contesto di attori amatoriali o inconsapevoli. Glazer ha più volte ribadito come in Under the Skin metodologia e narrazione coincidano. Non lo si può certo smentire: l’intera storia può essere infatti letta come un’articolata e complessa metafora della stessa recitazione, in quanto “entrare nella pelle” di un altro. Tuttavia nel film, l’estrema attenzione e l’amore sperticato per il metodo prevalgono in modo quasi soffocante, tanto da divenire quasi il fine stesso dell’opera.

Lo sguardo della macchina da presa coincide sempre perfettamente con quello dell’aliena, è un occhio totalmente distaccato. Nella prima parte della storia, la sua spietatezza è totale, lei ci guarda nello stesso modo in cui noi guarderemmo una formica, non esitando nemmeno ad abbandonare a morte certa un neonato. Poi qualcosa cambia e lei finisce con l’impietosirsi. Si tratta insomma della classica vicenda della bestia che si umanizza, peraltro sviluppata senza alcuna accortezza per le fasi evolutive della mente del personaggio. Tutto sembra accadere in modo banalmente meccanico e lo spettatore fa fatica ad accorgersi dei mutamenti in corso. La regia continua inoltre a restare distaccata, affidando tutto il peso della profonda trasformazione della protagonista a un’unica scena in cui lei si sofferma a guardarsi allo specchio. Qui la verosimiglianza cede il passo a un cieco amore per l’astrazione che non è sufficiente a spiegare il totale rivolgimento della fase successiva, in cui la creatura si dimostra persino avida di sperimentare le gioie e i dolori della vita umana, esplorando il proprio corpo e la propria sessualità, rendendosi conto delle differenze che la separano irrimediabilmente dal genere umano.

Under the Skin ha una strana, levigata epidermide, che ci seduce a forza di inquadrature rubate ma perfette, di suoni in presa diretta e lunghissime pause, di stacchi a orologeria, di dialoghi rarefatti e musiche ipnotiche. Ma il suo corpo è vuoto, freddo e – a conti fatti – inesistente.

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