venerdì 29 agosto 2014

Under the Skin - La recensione

"Crossposto" la mia recensione del film dalle pagine di Positif Unsitodicinema 

A quasi un anno dalla sua partecipazione al Festival di Venezia, Under the Skin si appresta a uscire nelle sale del nostro paese. All’origine dell’opera terza di Jonathan Glazer (Sexy Beast, Birth) c’è l’omonimo romanzo fantascientifico Sotto la pelle di Michel Faber. Dopo un lavoro sull’adattamento durato più di dieci anni, il regista e il co-sceneggiatore Walter Campbell si sono via via allontanati dalla fonte letteraria, specie dai suoi riferimenti allegorici alla politica, alle multinazionali, all’ambiente, e hanno invece cercato di esaltare la figura dell’aliena protagonista, rivelatasi il vero fuoco prospettico dell’intera pellicola.

L’intreccio di Under the Skin è scarno e arido come gli scenari scozzesi che gli fanno da sfondo. Una razza aliena ha invaso segretamente la terra, mandando una sua cacciatrice a fare incetta di carne umana maschile. Nascosta dentro il corpo di una donna procace (Scarlett Johansson) la spietata creatura abborda uomini soli e li attira dentro un antro buio, dove vengono letteralmente inghiottiti dal pavimento, per essere in seguito ‘prosciugati’ e privati della pelle.

Le premesse fantascientifiche non sono nuove ma anzi si riferiscono esplicitamente all’epoca d’oro del genere, quegli anni della Guerra Fredda in cui sono stati partoriti alcuni tra i più spaventosi incubi letterari e cinematografici: da Invasion of the Body Snatchers fino a They Live, passando per la serie televisiva V. Tutte declinazioni del tipico terrore diabolico del non appartenersi e della paura dell’altro, dell’alieno. Qui però si ferma ogni collegamento con la science fiction più classica: il film marcia in direzione contraria al sensazionalismo di genere e fa di tutto per confezionare sequenze di raggelante realismo e quotidiana normalità. Chi conosce gli altri lungometraggi del regista, i suoi video clip (memorabili quelli diretti per i Radiohead come Street Spirit) e i suoi spot pubblicitari, vi ritroverà la stessa vocazione sperimentale, che in questo caso emerge soprattutto nella moltiplicazione dei punti di vista audiovisivi e nell’uso dei practical effects al posto dei soliti e abusati trucchi digitali.

Si è fatto un gran parlare dei metodi peculiari adottati per girare il film. La Johansson sola dentro il suo camioncino, circondata da decine di videocamere invisibili, mentre tenta di adescare realmente, come in una candid camera, ignari passanti. Chiedersi se ciò corrisponda o no al vero è tutto sommato futile, visto che non ne risulterebbe comunque intaccata la percezione di estremo (neo)realismo che il film è capace di trasmettere. Più utile è soffermarsi ad apprezzare le performance di chi, come l’attrice protagonista, riesce ad apparire assolutamente verosimile in un contesto di attori amatoriali o inconsapevoli. Glazer ha più volte ribadito come in Under the Skin metodologia e narrazione coincidano. Non lo si può certo smentire: l’intera storia può essere infatti letta come un’articolata e complessa metafora della stessa recitazione, in quanto “entrare nella pelle” di un altro. Tuttavia nel film, l’estrema attenzione e l’amore sperticato per il metodo prevalgono in modo quasi soffocante, tanto da divenire quasi il fine stesso dell’opera.

Lo sguardo della macchina da presa coincide sempre perfettamente con quello dell’aliena, è un occhio totalmente distaccato. Nella prima parte della storia, la sua spietatezza è totale, lei ci guarda nello stesso modo in cui noi guarderemmo una formica, non esitando nemmeno ad abbandonare a morte certa un neonato. Poi qualcosa cambia e lei finisce con l’impietosirsi. Si tratta insomma della classica vicenda della bestia che si umanizza, peraltro sviluppata senza alcuna accortezza per le fasi evolutive della mente del personaggio. Tutto sembra accadere in modo banalmente meccanico e lo spettatore fa fatica ad accorgersi dei mutamenti in corso. La regia continua inoltre a restare distaccata, affidando tutto il peso della profonda trasformazione della protagonista a un’unica scena in cui lei si sofferma a guardarsi allo specchio. Qui la verosimiglianza cede il passo a un cieco amore per l’astrazione che non è sufficiente a spiegare il totale rivolgimento della fase successiva, in cui la creatura si dimostra persino avida di sperimentare le gioie e i dolori della vita umana, esplorando il proprio corpo e la propria sessualità, rendendosi conto delle differenze che la separano irrimediabilmente dal genere umano.

Under the Skin ha una strana, levigata epidermide, che ci seduce a forza di inquadrature rubate ma perfette, di suoni in presa diretta e lunghissime pause, di stacchi a orologeria, di dialoghi rarefatti e musiche ipnotiche. Ma il suo corpo è vuoto, freddo e – a conti fatti – inesistente.

lunedì 26 maggio 2014

Mononoke Hime (ri)visto per la prima volta. Un commento e una recensione



Se avete letto il mio precedente post saprete certamente quanto il film Mononoke Hime sia, per Miyazaki Hayao, il coronamento di un lungo percorso personale ed artistico. Si tratta del suo vero, epocale colossal, un’opera dalla gestazione complessa che ha richiesto immensi sforzi economici e produttivi per essere portata a compimento (se non ci credete, date subito un’occhiata al lungo documentario making of qui). Sforzi poi del tutto ripagati, perché il film ottiene in Giappone un riscontro strepitoso di pubblico ed è battuto al box office soltanto dalla mega produzione statunitense Titanic. Da quell’anno, il 1997, il cammino dello Studio Ghibli sarà costellato di record. Per questo e per molto altro, Mononoke Hime è un’opera di grandissima rilevanza, e no si può dire di apprezzare fino in fondo il suo regista senza averla vista e compresa a fondo.

Dall’8 al 15 maggio scorsi, il film è uscito nelle sale italiane e non ho certo perso l’occasione di vederlo. Spero che anche voi l’abbiate fatto, ma se così non fosse spero non vi lascerete almeno scappare l’uscita in home video.

Certo, tutti sanno che in Italia il film aveva già fatto il suo debutto cinematografico nell’anno 2000, sulla scorta degli ottimi risultati ottenuti in America, grazie alla Buena Vista International (divisione della Walt Disney Company), allora detentrice dei diritti distributivi sul mercato nostrano. Io stesso non feci in tempo a vederlo nei cinema ma presi in affitto il DVD non appena possibile: lo ricordo come fosse oggi, il giorno del mio diciottesimo compleanno. Quelle immagini mi sedussero in modo avvolgente e accattivante, era il primo film dello Studio che vedevo, e fui rapito dal quel modo del tutto diverso di concepire il disegno e l’animazione: la ricchezza dei dettagli, la fluidità dei movimenti, il montaggio così espressivo e la meravigliosa colonna sonora. Però, già in quelle prime visioni, e poi nelle successive quando acquistai quel DVD oggi ormai introvabile, capii che nel racconto qualcosa non tornava, che c’erano troppe contraddizioni. Erano gli albori del web, almeno per me che avevo da poco ottenuto la lentissima connessione 56k. Così iniziati a documentarmi e compresi che l’adattamento italiano aveva stravolto tutto.L’intera trama, i ruoli e i passaggi fondamentali, ogni cosa era stata normalizzata, appiattita, semplificata per un pubblico che si riteneva evidentemente incapace di cogliere i riferimenti e le allusioni di un prodotto complesso e lontano dalla nostra cultura. Ma non era solo questo: il finale in particolare era stato modificato mettendo in bocca ai personaggi nuove battute, per renderlo quello che non era e non doveva essere: un happy ending. Così nella versione italiana, la frase di chiusura del film pronunciata dal bonzo Jiko recitava: “A quanto pare la natura, stavolta, ha avuto la meglio”, quando in originale risultava, parafrasando, “non si possono battere gli stupidi”. Le modifiche al finale sono soltanto la punta dell’iceberg. Da quel momento ho preferito rivedere il film con i sottotitoli del doppiaggio inglese (a cui ha lavorato anche lo scrittore Neil Gaiman), certamente più aderenti all’originale.

La versione odierna è quanto di più fedele si sia potuto ottenere. L’adattamento e la direzione del doppiaggio sono stati curati da Gualtiero Cannarsi, già responsabile di quelli dei precedenti film dello Studio (tra i quali Il castello errante di Howl, I raccconti di Terramare, Il mio Vicino Totoro, Arrietty). Per la fortuna di noi appassionati, Cannarsi concede sempre interviste sul proprio metodo di lavoro e dialoga approfonditamente con i fan nel forum non ufficiale italiano dello Studio. È sua tradizione anticipare i doppiaggi con dei post su quel forum che sono dei veri e propri diari di lavorazione (qui trovate l’ultimo su Mononoke Hime). Già a una prima lettura si nota l’attento, minuzioso lavoro di studio e ricerca delle fonti, di penetrazione del testo e volontà di trasporlo per quanto e più possibile nella nostra lingua. È una mediazione mirabile, che permette a tutti di godere quasi trasparentemente il film, senza alcuna alterazione se non quella, impossibile da evitare, dell’atto di tradimento che è la traduzione stessa. Non mi stanco mai di ripetere a tutti quanto noi fan italiani dobbiamo ritenerci fortunati e privilegiati. In quale altre occasioni vi è capitato di poter rivedere distribuito nelle sale un film comunque “di nicchia”, e per di più completamente riadattato nel modo più fedele possibile all’originale?

Partendo da queste premesse, sono entrato nella sala buia e ho visto Mononoke Hime per la prima volta, con pupille non offuscate (come recita una delle frasi chiave del film). Anche ora a mente fredda, ritengo sia stata una delle esperienze cinematografiche più intense che abbia mai vissuto. Abituato e assuefatto com'ero all'altra sciagurata edizione, tutto in quel momento aveva il sapore di una rivelazione. Tutto combaciava, e quelle belle immagini prima prive di senso adesso ne traboccavano, fin nei minimi particolari.



Di qui parte la mia recensione:

Ambientato nel Giappone di un’epoca Muromachi condita di elementi fantasiosi, il film racconta le gesta dell’eroe Ashitaka, membro dell’antica e leggendaria tribù degli Emishi, costretto ad abbandonare per sempre il suo villaggio poiché macchiato dalla maledizione di un dio cinghiale, trasformato in un demone. Ad aver scatenato la metamorfosi della creatura è una pallottola di ferro proveniente da un luogo remoto. L’eroe intraprende quindi un lungo viaggio per scoprire, senza pregiudizi, chi abbia costruito un’arma capace di ferire e corrompere quella divinità e lui stesso, condannando entrambi a morte certa. Ashitaka raggiunge un territorio sconvolto da un conflitto insanabile: da un lato la comunità di donne della fornace, comandata dalla ferrea madama Eboshi, insediatasi in una regione vergine per estrarvi il ferro e fonderlo, costruendo utensili e armi; dall’altro le divinità e gli animali della foresta, che lottano contro il disboscamento messo in atto per l’estrazione del metallo, capeggiate dalla dea cane Moro e da sua figlia, San, un’umana allevata dalle belve.

Un affresco di pungente modernità, che descrive il rapporto sproporzionato dell’uomo con il resto dell’ecosistema, e che tuttavia sottolinea la tragica e naturale necessità umana di esistere e vivere a spese di altra vita. Eboshi e le sue donne fanno quanto ritengo necessario per sopravvivere in un mondo di continue violenze e soprusi, ma la loro stessa presenza nella foresta è a sua volta un sopruso per le creature che vi risiedono. Ho trovato molto interessante il modo in cui Miyazaki visualizza la maledizione, il male, facendola apparire come una malattia, una macchia della pelle che lentamente ma inesorabilmente mangia l’intero corpo. Non è più soltanto il MarMarcio di Nausicaa della Valle del vento: la corruzione è un fatto interno ed interiore, e fa parte della vita. Non esiste un mondo immacolato come non può esistere un corpo immacolato, e la stessa Eboshi lo sa bene: oltre alla donne ha preso a lavorare con sé i peggiori reietti, i lebbrosi, cui nessuno osa avvicinarsi.

Ashitaka non può quindi giudicare né propendere per una delle due parti. Egli guida lo spettatore in un mondo disperato e senza soluzione, dove la guerra è inevitabile. Però, in mezzo al conflitto, trova una ragione per continuare a lottare quando incontra la principessa spettro. Si innamora di San dal primo istante in cui posa gli occhi su di lei. La ragazzina vive in bilico tra due mondi: rifiuta la sua natura umana e abbraccia senza esitare la sua famiglia di adozione, i cani selvatici. La sua madre putativa, Moro, è accecata dall’odio per Eboshi, e come tutte le altre creature del bosco, è pronta a morire trascinando sua figlia con sé. Questo, Ashitaka non può accettarlo, sente che San ha bisogno di essere amata e protetta, e che non può sprecare la sua vita in un insensato martirio.

La principessa spettro tuttavia rifiuta inizialmente il suo amore, perché non lo comprende e non lo accetta. Lo trova sciocco e inutile, ma poi infine capisce che è un dono gratuito per cui vale la pena vivere. “Vivi!” le sussurra il ragazzo in una delle scene più drammatiche del film, vuole dirle di non sprecare inutilmente la sua vita, di condividerla con lui. Questo è l’unico valore possibile in un mondo sconquassato dalle guerre e dalle contraddizioni. All’inizio l’eroe è convinto di poter trovare una mediazione tra queste realtà in lotta, ma alla fine comprende come sia impossibile tentare una conciliazione tra due forze uguali ed opposte. Il contrasto è talmente acceso che dovrà perfino rinunciare all’amore per San, la quale non potrà mai perdonare la propria specie, gli umani e vivere con loro. Ma ad Ashitaka starà bene anche così, gli basterà sapere che San vive.

Le battute dei personaggi principali sono tutte di una spaventosa incisività, Miyazaki mette in scene un vero e proprio dramma dei tempi remoti, una tragedia shakespeariana. Non sono un profondo conoscitore del cinema giapponese ma credo che il riferimento al bardo inglese sia legato a doppio filo ai film di Kurosawa Akira direttamente ispirati a quelle tragedie, come Il trono di sangue e Ran. Madama Eboshi, nei suoi modi perentori e cinici, si rifà a Lady Macbeth. È un personaggio davvero affascinante, una donna onorevole e risoluta, ma anche colma di odio e solitudine, arroccata in un ruolo di comando che non le permette nessun vezzo o debolezza. Moro è il suo contraltare ferino, ma si tratta di due matrone davvero molto simili, che si guardano da opposte barricate. Il Dio Bestia, principale protettore del bosco, credo rappresenti l’infinita danza di vita e morte (giorno e notte; misericordia e crudeltà; dare e togliere), non è più il poetico cervo che tutti credevano fosse, a causa del vecchio "maltradattemento". E' la natura magnifica e pericolosa delle cose. È la morte che ha bisogno della vita e la vita che ha bisogno della morte. C’è poi l’opportunista Jiko, tutt’altro che un personaggio negativo. Anche lui ha i propri scopi utilitaristici e non vede di buon grado gli ideali di Eboshi, così come quelli di Ashitaka.

In questo complesso impianto teatrale Miyazaki non si nega grandi scene di massa, esplosioni e serratissime sequenze di azione tecnicamente formidabili. I riferimenti al suo Nausicaa della Valle del vento sono pure moltissimi: l’arrivo iniziale del Dio Cinghiale infuriato ricorda l’analoga prima sequenza con la corsa dell’Ohmu rabbioso; quando poi Ashitaka viene a sua volta colto dall’ira e i suoi capelli si sollevano, sembra di vedere la stessa Nausicaa scagliarsi contro i soldati nemici; o ancora, quando Ashitaka si frappone tra le lame di Eboshi e San pare di rivedere una simile scena in cui a farlo è Yupa; il gigantesco Dio Bestia, nella sua versione notturna (chiamata Deidarabocchi) assomiglia invece al Soldato Titano di Nausicaa; la stessa marcia finale degli Ohmu è speculare a quella disperata dei cinghiali in Mononoke Hime. I riferimenti sono davvero moltissimi, a riprova del legame profondo tra questa e quella storia.

Vorrei ancora dire altro sul film. Circa la componente grafica ed estetica, quest'opera è forse il picco massimo raggiunto dallo Studio in termini di attenzione per i particolari e numero di tavole/disegni. I fondali non sono soltanto minuziosamente pittorici, ma in più occasioni talmente ampi da permettere lunghissime carrellate orizzontali e verticali, davvero rare nel cinema d’animazione. La profusione di dettagli è davvero maestosa e continua a colpirmi la scena in cui il cammino di Ashitaka è contrappuntato da una pioggia passeggera, con gli steli dell’erba mossi dal vento e  poi bagnati dalle gocce, mentre la bruma si addensa e scivola tra i monti. Un’ultima nota la dedico alla maestosa partitura musicale di Hisaishi Joe e in particolare alla canzone del tema di chiusura Mononke Hime, dove ritorna il nodo centrale del film, l’amore di Ashitaka per San che va oltre la tristezza e la rabbia, e accetta la vita così com’è.


giovedì 8 maggio 2014

Da Nausicaa a San. La ricerca del paradiso perduto di Miyazaki Hayao

Il giorno dell'uscita nelle sale italiane di Mononoke Hime, tradotto e adattato in modo fedele all'originale, ho deciso di pubblicare questo mio articolo inedito su Nausicaa della Valle del Vento e sul lungo percorso tematico di Miyazaki Hayao che parte proprio da quel film per concludersi con Mononoke. Per circa quindici anni il regista ha portato avanti il suo personale "grande racconto" incentrato sul conflitto incessante tra natura e cultura, e l'opera che da oggi tutti (ri)vedranno nelle sale rappresenta proprio il culmine di questa sua lunga riflessione. Penso sia quindi interessante porre il film in un contesto più ampio, per comprenderlo meglio e capire come si sia evoluto nel tempo il pensiero del suo autore. Questo mio scritto non pretende di essere esaustivo in merito, ma spero possa fornire dei fruttuosi spunti. Senza la costante lettura, i continui scambi e approfondimenti intavolati nel corso di anni con gli utenti del forum studioghibli.org non sarei mai riuscito a elaborarlo in questa forma. In un prossimo post mi arrischierò in una recensione di Mononoke non appena l'avrò visto al cinema.

Un'avvertenza: purtroppo non ho potuto fare a meno di inserire degli spoiler, soprattutto riguardanti il manga di Nausicaa.




Dal fumetto al film

Tra tutte le opere originali concepite da Miyazaki Hayao, Kaze noTani no Nausicaa occupa di certo un posto speciale nel cuore del regista. Composta da un film animato e da sette volumi a fumetti contiene uno dei materiali narrativi più longevi del suo percorso artistico, i cui temi cardine già si ravvisavano in Mirai Shounen Conan (Conan il ragazzo del futuro) e la futura protagonista già si scorgeva prefigurata nel volto di Clarice in Cagliostro no Shiro (Il castello di Cagliostro). Questi temi saranno poi sviluppati nell’arco di più di una decade, per concludersi col film Mononoke Hime (La principessa spettro), il quale segna la fine di un ciclo nel pensiero di Miyazaki, che abbandona idealmente la suo personaggio e il mondo di conflitti universali in cui è immerso.
Tutto ebbe inizio, in ogni caso, con il manga omonimo, pubblicato sulla rivista Animage a partire dal 1982. Miyazaki non sarebbe mai riuscito a farne un film se l’allora editor della rivista (il futuro amico Suzuki Toshio, dalle abili doti imprenditoriali) non l’avesse spinto a sottoporre il fumetto ai finanziatori per convincerli a realizzarne un lungometraggio.


Nonostante il buon successo di Cagliostro no Shiro, che stravolgeva il Lupin di Monkey Punch trasformandolo in un eroe fiabesco, Miyazaki non riusciva a recuperare i finanziamenti per la propria opera seconda. Le sue idee nel cassetto – compresa quelle del futuro campione d’incassi Tonari no Totoro – erano considerate del tutto inadeguate allo spirito dei tempi. Ma il talento produttivo di Suzuki permise al film di entrare in cantiere, seppur con risorse limitate. Un nuovo studio di produzione, il Topcraft (Lo Studio Ghibli era ancora di là da venire), venne creato per l’occasione.
Dedicato a un pubblico di appassionati di letteratura fantasy, “belle ragazze”e animazione fantascientifica - in altre parole gli stessi lettori di Animage - Nausicaa della Valle del vento debutta nelle sale l’11 marzo 1984.  Il successo ottenuto è strabiliante ed è dovuto in massima parte alla affezione del pubblico nei confronti della protagonista.
La pellicola copre all'incirca i primi due volumi del manga, e viene messa in produzione proprio mentre Miyazaki sta ultimando il secondo. Laddove il film si conclude con un finale risolutivo il fumetto mantiene aperta la storia e la porta avanti fino al settimo volume, pubblicato ben dieci anni dopo.
Grazie a quest’ampio sviluppo temporale l’opera può a assorbire, di capitolo in capitolo, i più minuti cambiamenti del pensiero dell’autore e restituire una visione composita e in evoluzione del mondo narrato, in rapporto di reciproca influenza con i film che Miyazaki realizza nel corso degli anni. Ed è futile il tentativo di rintracciare elementi di coerenza o di continuità in una trama intessuta nella mente di un uomo che invecchia, spostando il proprio punto di vista sul mondo.



L’Arcadia e il socialismo

Lo scenario di Nausicaa della Valle del vento, simile a numerosi mondi della fantascienza classica, è una terra di un lontano futuro ridotta a un arido e velenoso deserto dallavidità di un’antica civiltà industrializzata. Le risorse naturali sono state prosciugate e l’umanità si è quasi autodistrutta nella guerra chiamata dei “Sette giorni di fuoco”, nella quale  giganteschi guerrieri umanoidi hanno sconquassato intere nazioni.
Tale motivo distopico e post-apocalittico non è poi diverso da quello che Miyazaki aveva già tratteggiato in Mirai Shounen Conan (basato sul romanzo The Incredible Tide), in cui da una catastrofe che decima la popolazione mondale sorge la potenza di Indastria, una società opulenta e tecnocratica che giunge nuovamente sull'orlo dell’auto-estinzione. La stessa idea sarà alla base del terzo lungometraggio di Miyazaki, Tenku no Shiro Rapyuta (Laputa. Castello nel cielo, ispirato ai Gulliver's Travel di Swift), anche in quel caso l’umanità pagherà lo scotto della sua hybris, del suo uso indiscriminato di scienza e tecnologia.


In mezzo al mondo inospitale di Nausicaa della Valle del vento, l’autore pone un’isola felice, un paese bucolico governato da una società pacifica: la Valle del vento, un luogo al riparo dai vapori tossici delle terre circostanti. Si tratta di un ideale arcadico che caratterizza molte delle opere giovanili di Miyazaki (è presente anche nel manga del 1983, Shuna no tabi), in cui riecheggiano gli scenari di una delle saghe letterarie più amate e citate dall’autore: il ciclo di Earthsea. L’immaginario di Nausicaa deve molto all’opera di Ursula Le Guin, è ad esempio impossibile non riconoscere dietro un personaggio come quello di Yupa l’ombra del saggio mago Ged.


L’opposizione natura-cultura è tuttavia soltanto la premessa della storia che Miyazaki sta mettendo a punto. L’umanità non ha soltanto fallito il proprio rapporto con l’ambiente, ma si è resa soprattutto incapace di convivere con se stessa. La Valle del vento si configura quindi come un luogo di governo ideale su base socialista, immerso in un mondo nuovamente sconvolto dai conflitti, nel quale due potenze, Dorok e Tolmekia, si contrappongono per la conquista e la purificazione del territorio. Si tratta di una meditazione sul socialismo non abbracciato come ideologia, ma messo in discussione in quanto ipotesi di umana convivenza. Miyazaki viene infatti da un profondo distacco dal comunismo sperimentato in gioventù, ed è giunto per lui il momento di pensare a un’attuazione concreta e personale delle idee marxiste. Una riflessione che si esprime nel modo a lui più congeniale: l’allegoria fantastica.
Fin dai primi due volumi questa terra felice non si oppone però drasticamente al resto del territorio, non si piega, cioè, a un banale contrasto manicheo tra il bene-socialismo-natura e il male-imperialismo-artificio. Il fulcro di resistenza a una simile banalizzazione è rappresentato dalla stessa Nausicaa.



La principessa che amava gli insetti

Nausicaa è l’archetipo dell’eroina miyazakiana (i cui prototipi sono Clarice nel suo film di Lupin e Lana in Conan). Una ragazzina forte, altruista, compassionevole. Nessuno è in grado di resistere alla sua femminea dolcezza. Questa perfezione non è però esente da fragilità, ed è proprio questa commistione di arrendevolezza e forza a catalizzare l’amore dello spettatore/lettore per Nausicaa.
Miyazaki le dà il nome della fanciulla che salva il naufrago Odisseo, ma l’ispirazione è vaga e filtrata da una traduzione compendiaria del testo omerico. Il vero prototipo di Nausicaa è, per dichiarazione dello stesso autore, la protagonista di Mushi mezuru himegimi (La principessa che amava gli insetti), racconto nipponico del dodicesimo secolo. Quale migliore immagine di pura e disinteressata bontà che quella di una fanciulla innamorata degli esseri considerati più ributtanti? Lo stesso per Nausicaa, che ama intensamente quel regno ostile all'uomo, quei giganteschi insetti – gli ohm – frutto dell’evoluzione del Mar Marcio, e tutti gli altri esseri viventi che lo popolano: piante calcificate e spore simili a fiocchi di neve che inseminano un mondo inaccessibile.
Già in questo primo affresco dell’ambiente Miyazaki ci vuole suggerire, attraverso lo sguardo di Nausicaa, come la natura umana non sia che una parte del tutto. E che quel tutto non deve necessariamente prevedere l’umano (questa identica idea tornerà in Gake no ue no Ponyo, nelle aspirazioni del papà della protagonista, Fujimoto). Anzi, la bellezza di quel mondo sta proprio nel non essere contaminato dalla nostra specie. La rilevanza degli splendidi e dettagliati fondali di ogni opera di Miyazaki, non fa che ricordarci di continuo l’eguale rilevanza tra noi e il resto del creato.


Soltanto Nausicaa riesce a placare l’ira degli insetti, cavalcando il vento a bordo del suo mezzo volante, il Mehve.  Miyazaki la descrive come un vero e proprio idolo, una figura messianica. Al tempo stesso la carica di una bellezza infantile ed erotica, facendo ondeggiare la sua gonnellina succinta per la propria gioia e per quella di un pubblico di appassionati otaku.  È una visione della femminilità assai lontana dal pensiero femminista cui spesso si fa riferimento parlando di questo autore. Nausicaa è posta su un piedistallo inaccessibile e perfetto: un’immagine irreale concepita dalla mente maschile, non dissimile dalla stessa Nausicaa omerica, dalla Beatrice Dantesca, dalla Annabel Lee di Poe, dalla Alice Carroliana o dalla moderna Lolita di Nabokov. Nausicaa è la compiuta rori nipponica (da Loli, diminutivo di Lolita), un coacervo di caratteristiche irreali e di incorruttibile immutabilità.


La ragazza arriva a comprende persino le ragioni dei propri nemici, figure che compromettono l’equilibrio della Valle e del mondo. Tra loro la principessa soldato K’shana rappresenta il suo contraltare, ma non la sua reale antagonista. Sia nel fumetto che nel film, K’ushana non è diversa dalla giovane eroina, è soltanto una donna invecchiata, convinta che il sommo bene umano necessiti della distruzione per poter proliferare. Ecco l’altra metà del mondo femminile secondo Miyazaki: la donna corrotta dal tempo, dura, forte, persino crudele. La ragazzina innocente e la donna disillusa: In tutte le sue opere è rintracciabile un simile binomio.
Va da sé che i personaggi maschili trovano poco spazio in questo mondo popolato da figure femminili dominanti. Vi è però il saggio Yupa, il coraggioso Asbel e la guida spirituale Selm. E in mezzo a loro un proliferare di sovrani e soldati corrotti provenienti dai regni di Tolmekia e Dorok.


Luce e oscurità

Veniamo quindi al tema principale del fumetto, che si discosta inesorabilmente da quello del film per la soluzione proposta. In principio, Nausicaa incarna il salvatore di un mondo corrotto che grazie alla bontà di lei potrà risanarsi. Nei volumi del manga la storia si evolve in parallelo con i drammi sempre più mediaticamente pressanti del Giappone e del mondo postmoderno: le guerre, il terrorismo, l’inquinamento, i cambiamenti climatici. Ecco allora che tra le pagine assistiamo a infiniti sacrifici e afflizioni, e a una lunga teoria di personaggi miserabili ed egoisti.
Nausicaa, sempre più sofferente, si scontra col dramma esistenziale dell’umanità intera: può esistere un equilibrio tra mondi in conflitto? Ne soffre, non senza subire ferite profonde, ma continua imperterrita a cercare una risposta.  Nel penultimo volume giunge ad addomesticare un dio guerriero risvegliato. Ingenuo come un bambino, il mostro identifica la giovane come sua madre, e lei, accettando pietosamente quel ruolo, gli dona un nome: Ohma. Con lui intraprende un viaggio all’interno di un antico santuario e  in quel luogo le è svelata una verità sconvolgente: gli esseri umani e tutte le creature che popolano la terra non sarebbero altro che esseri artificiali, progettati per purificare un ecosistema inquinato e prepararlo a una nuova rinascita, un mondo in cui Nausicaa e gli altri come lei non potranno sopravvivere.


In questa rinnovata visione le opposizioni classiche di puro/corrotto, naturale/artificiale non hanno più un netto significato. Se l’uomo fa parte della natura – sembra dirci Miyazaki – allora la tendenza alla distruzione è in lui un fatto naturale, e qualunque sforzo egli compia per abitare un mondo immacolato non si risolve che con la negazione dell’uomo stesso, del suo bagaglio di bruttura, sofferenza e morte. Nel difendere a spada tratta la vita dei suoi simili, contro il piano preparato dagli umani “illuminati” del passato, Nausicaa incarna la morte, l’oscurità, come le rivela la voce di un antica intelligenza artificiale. Eppure soltanto dall'oscurità può scaturire la luce, ribadisce Nausica: esse sono un tutt'uno.
Miyazaki sembra accettare la complessità del rapporto tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e l’uomo, ma respinge ogni soluzione che non contempli la forza di vivere il momento, lo slancio vitale umano. Così Nausicaa, nell’ultima tavola del manga, decide di tenere per sé la terribile rivelazione della catastrofe imminente, sperando nello spirito vitale del suo popolo. Perché – afferma ancora la protagonista – la vita è in grado di sopravvivere ai piani precostituiti che tentano di imbrigliarla, i quali rappresentano il massimo della proiezione razionale maschile sul mondo, contro cui Nausicaa reagisce con l’emotività e la passione femminili. Desiderare un mondo che non muta nel tempo, o i cui cambiamenti sono predeterminati, non è altro che una sciocca utopia.



Il nichilismo pietoso dell’angelo

Se al termine del manga ancora prevale un vago senso di ottimismo, Miyazaki conclude idealmente il cammino della sua eroina con una nuova produzione imperniata su un nichilismo che si potrebbe definire vitalistico. Si tratta ovviamente di Mononoke Hime. Ambientato in un passato immaginario il film condanna l’ideologia giovanile dello stesso Miyazaki, ricreandone una versione ben più complessa. Nausicaa diventa San, una principessa crudele e feroce quanto sa esserlo la natura. Il protagonista Ashitaka condivide gli stessi tratti eroici di Asbel ma anche quelli più mistici di Selm, il ragazzo del Popolo della foresta. K’ushana diventa Eboshi, le cui ragioni pro-umane del progresso e dell’industrializzazione sono valide quanto quelle delle divinità del bosco. Il conflitto non può essere evitato, ne ci sarà mai un progresso, non resta quindi nient’altro che arrendersi alla vita così com'è, al di là del bene e del male.


Durante la produzione del film, Miyazaki si era già accomiatato idealmente dal personaggio di Nausicaa, per mezzo del videoclip On Your Mark, nel 1995. Il breve e intenso filmato è un percorso di liberazione di un angelo che ha il volto e le fattezze del personaggio caro al regista (del resto, già all'inizio del manga, e nel film, Nausicaa veniva rappresentata in forma di angelo). I due eroi che portano in salvo la creatura (il duo di cantanti Chage & Aska in versione animata) simboleggiano forse gli ideali di gioventù del regista. Anche in questo breve racconto l’umanità ha subito lo scotto di un disastro nucleare e vive reclusa in delle città-bunker, ma la coppia libera la fanciulla-angelo affrontando con fiducia un mondo esterno che, a dispetto di tutte le previsioni, si rivela rigenerato e rigoglioso. Volando via, l’angelica Nausicaa si china in uno sguardo di commossa pietà verso i suoi salvatori: anche lei è ormai invecchiata, proprio come il suo autore, e può infine congedarsi con mestizia dal mondo dell'immaginario in cui veniva reclusa.


Il topos del ritorno a un antico equilibrio diventa così, per il Miyazaki anziano, soltanto lo specchio dell’egoistico desiderio di tornare al proprio paradiso perduto: l’infanzia. Così dichiarerà l’autore molti anni dopo la conclusione di quest’opera universalistica che è Kaze noTani no Nausicaa:

“How can we go in peace without any dictators? The biggest bet of humankind to that question was socialism. It was grown in Europe during the 19th century and tested during the 20th century. As a result, it failed. We got to know there is no paradise on the earth. I believe paradise only exists in the memories of our childhood. Because of that, many social movements that aim to make a paradise always end up failing. So we must accept that our world isn't a paradise. That is something which is too bitter for us though. That is why mankind created some ways to comfort themselves with several virtual ways”. (Dichiarazione tratta da Neppu Magazine, 30 novembre 2008, riportata da GhibliWord.com)

lunedì 5 maggio 2014

May the fourth be with you. Lo Star Wars Day a Roma tra punti di forza e lati oscuri

Inauguro questo blog con un post dedicato a Star Wars, e non poteva essere altrimenti. Nessun vero nerd o geek può dirsi tale se non apprezza e conosce a fondo quella che è probabilmente la saga cinematografica più influente di tutti i tempi. Ammetto di essere tra quelli che non hanno particolarmente apprezzato l’operazione dei prequel e di nutrire parecchi dubbi sull’opportunità di questi nuovi tre film. Però l’entusiasmo di J.J. Abrams mi ha davvero contagiato e da buon fan non posso che riporre una nuova speranza in questa trilogia a venire (ne parlerò in modo più approfondito in un post dedicato).


Soltanto pochi giorni fa è stato annunciato il cast e, signori, il senso di nostalgia è stato fortissimo. Sono passati trentun anni da Return of the Jedi e di nuovo potremo rivedere insieme Harrison Ford, Mark Hamill, Carrie Fisher, Anthony Daniels, Peter Mayhew, Kenny Baker. Tra i nuovi membri spiccano poi Andy Serkis (chissà se interpreterà un personaggio in carne e ossa o se gli presenterà soltanto le sue doti fisiche e vocali) e Max von Sydow, che è un vero monumento vivente della cinematografia. E poi, ovviamente, c’è una schiera di nuovi promettenti attori. La fotografia in bianco e nero che ritrae il gruppo quasi al completo ha fatto il giro del mondo e trasmette una fortissima potenza evocativa: sembra una sorta di concilio di Elrond, se mi permettete un riferimento a un’altra saga fondativa di tutti gli immaginari contemporanei.

Lo scorso 4 maggio, cioè ieri al momento in cui scrivo, cadeva inoltre la ricorrenza annuale dello Star Wars Day. Tutti gli appassionati sanno quanto il mese di maggio sia storicamente importante per la saga e trovo geniale il gioco di parole con l’iconica frase dei Jedi “may the force be with you”.

Dopo anni di festeggiamenti privati, di reunion “clandestine” e di maratone, finalmente anche l’Italia ha ottenuto la sua celebrazione ufficiale. Ne ha avute anzi due, una a Milano, presso il Disney store e l’altra a Roma, sotto al Colosseo. È evidente come l’acquisizione del brand da parte della multinazionale di Mickey Mouse generi i suoi frutti positivi in termini di marketing e visibilità.

Abitando a Roma sarebbe stato un vero delitto perdermi una simile occasione, quando molti fan sono giunti da tutta Italia. Sotto il patrocinio della Disney la manifestazione è stata organizzata dalla 501st Italica Garrison e dalla Rebel Legion, due autorevoli comunità di appassionati in grado di riprodurre con la massima fedeltà costumi, personaggi e oggetti della saga.

L’iniziativa e lo sforzo sono stati veramente lodevoli, e mi sembra ancora adesso impossibile che si sia potuto organizzare un evento di questa portata all'ombra del monumento più famoso di Roma. Tuttavia, sin dal principio si sono verificati non pochi problemi organizzativi. Le premesse non sono state delle migliori, la notizia dei festeggiamenti è rimbalzata per tutti i siti specializzati tramite uno scarno comunicato stampa che indicava unicamente l’orario di inizio della manifestazione, senza specificarne la durata o tracciarne un pur sommario programma.

Da buon ritardatario sono arrivato in situ circa venti minuti dopo l’apertura delle danze (però so che mi perdonerete se dico tre paroline magche: Roma, giorno festivo, mezzi pubblici). E credo di essermi perso l’unica parata vera e propria svoltasi in mezzo al pubblico. Sì, perché figuranti, giornalisti e una meravigliosa riproduzione a grandezza naturale del fighter TIE Advanced x1, erano appollaiati su una collinetta antistante l’arco di Costantino, che divide la zona pedonale di piazza del Colosseo dalla trafficata via Celio Vibenna (difatti, l’anfiteatro Flavio è ridotto oggi a essere la rotatoria più prestigiosa d’Italia, sigh).


Perdonate la qualità delle foto ma è tutto quello che il mio very cheap smartphone può offrire. Comunque, questa era la situazione al mio arrivo: un fiume di persone che si accalcava intorno ai margini del “colle” per tentare di avere una visuale ravvicinata, con gli uomini della sicurezza a vigilare dall'alto. Ma alla fine si riusciva a vedere molto poco.

Io, il mio carissimo amico Gabriele e la sua dolce metà, coi quali nel frattempo mi ero incontrato, abbiamo provato a passare dall'altro lato per poter ammirare meglio il caccia imperiale, ma la visibilità è risultata ancora peggiore. Nel frattempo, dal lato del Colosseo, lo spiazzo si è riempito in men che non si dica e alla fine si presentava così:


Non posso che gioire per questa affluenza che dimostra l’ampiezza del bacino italiano di appassionati vecchi e nuovi. C’erano moltissime famigliole e tanti, tanti bambini, mi sono stupito a sentirli riconoscere con sicurezza i nomi di tutti i personaggi in costume, persino quelli minori! Dal lato opposto però la situazione era alquanto rischiosa per la sicurezza, con parecchia gente riversata in mezzo al traffico e altra pericolosamente affacciata al ciglio di un alto muraglione.

I costumi erano davvero moltissimi. Certo, mi è capitato di poter osservare qua e là, in anni di fiere e incontri, qualche manipolo di stormtrooper o una maschera di Darth Vader, ma non ho mai assistito a un allestimento così sontuoso. Abbigliamento e trucco sono stati riprodotti fin nei minimi dettagli e il physique du role dei modelli era a dir poco perfetto. Non ricordo di aver visto Chewbacca, il piccolo Anakin, C-3PO e Jabba, ma a parte questi c’erano veramente tutti, alcuni interpretati in differenti versioni, come la Leia di Episodio IV in vesti bianche e acconciatura tipica, o quella sensuale e succinta di Episodio VI, o ancora quella travestita da cacciatore di taglie nello stesso film. Mi hanno colpito molto l’Anakin buono e quello incattivito e gli splendidi abiti di Padmé Amidala, e poi le decine di truppe dell’esercito imperiale, le guardie rosse, una magnifica versione dell’imperatore Palpatine e, ovviamente, Darth Vader.

Uno stormtrooper conversa amabilmente con  Obi-Wan, mmmh...

I mitici, mitici Tusken
 Nel piccolo spazio rialzato che avevano a disposizione, gli attori hanno fatto del loro meglio per interagire con il pubblico in basso, ammiccando e combattendo a suon di spade laser. Come il resto della gente radunata intorno a me, sono riuscito a cogliere solo da lontano alcuni sprazzi di questo magnifico consesso di performer.


Ancora Obi-Wan e la bella jedi Aayla Secura
Mi rendo conto che l’idea di usare una cornice sopraelevata sulla carta potesse sembrare vincente, ma a conti fatti l’assembramento era tale, e lo spazio talmente ristretto, che la scelta si è rivelata controproducente. Una vera passerella al livello del suolo, dove i protagonisti avrebbero potuto sfilare, sarebbe risultata molto più fruibile per tutti. L’impressione mia e della maggior parte dei presenti (perlomeno da quel che ho potuto sentire) è stata quella di uno spettacolo godibile in pieno solo dagli addetti ai lavori, cioè la stampa, i fotografi e gli altri fortunati che si trovavano dentro il cordolo di sicurezza. In particolare il fighter, forse l’attrazione più bella e scenografica, era davvero quasi invisibile dal basso. Bad Taste ha pubblicato delle foto meravigliose, e in generale solo da scatti come questi si può apprezzare davvero la portata dell’evento, che ha assunto innegabilmente un valore più mediatico e pubblicitario che di vera occasione celebrativa e sociale. E questo è un vero peccato.


L'altra nota pesantemente stonata è stata, ahimè, la brevissima durata della festa. Questo Star Wars day romano si è concluso in non più di due ore, non molto, vista soprattutto la gran quantità di persone giunte da tutto il paese, che logicamente si aspettavano di più e sono rimaste parecchio deluse (tra queste ho notato anche certi non sospetti vip, Lello Arena, Jasmine Trinca e Valerio Mastandrea). Mentre i palchi venivano smantellati mi sono giunte delle voci circa dei presunti problemi coi permessi che avrebbero costretto gli organizzatori a chiudere i giochi prima del tempo, ma non credo siano molto fondate, danno solo conto del brusio di scontentezza generale.


Non credo però sia il caso di lagnarsi più del dovuto, come ho già detto si è trattato di un momento unico e di uno sforzo lodevole. Mi auguro davvero che l’iniziativa venga riproposta l’anno prossimo, magari in un’altra cornice più agevole per il pubblico (se si vorrà restare a Roma c’è il Circo Massimo, per esempio, o perché no, l’Eur, i cui palazzi sanno molto di Impero galattico…).

La splendida maglietta indossata per l'occasione dal mio amico Gabriele
Vi lascio un piccolo video che ho realizzato dove si (intra)vedono, tra gli altri, Boba Fett, Leia, l’ammiraglio Ackbar (con la mia voce fuori campo che fa un’imitazione patetica di “It’s a trap!”), due deliziosi Jawa, la jedi Aayla Secura, l’Anakin di Episodio II che tira qualche colpo di spada laser con dei bambini e, dulcis in fundo, lo stesso Anakin in versione Darth Vader.

May the force be with you!